Giugliano brucia ancora. Ma i roghi sono solo la punta dell’iceberg
di Renato Scognamiglio
Giugliano in Campania, 1° luglio 2025.
È il primo giorno di luglio, il termometro sfiora i 40 gradi e l’aria torna a farsi densa, irrespirabile, velenosa. Una colonna di fumo nero si alza dalla zona ASI tra Giugliano e Qualiano, visibile a chilometri di distanza. L’incendio, l’ennesimo, divampa nei pressi del campo rom, tristemente noto per episodi analoghi. Le reazioni sono immediate: finestre sbarrate, bambini chiusi in casa, rabbia che monta. E torna il solito ritornello: “È sempre la stessa storia.”
Ma è proprio questa ripetizione ossessiva a impedire la comprensione profonda del problema. Non è sempre la stessa storia. È un meccanismo strutturato, efficiente nella sua illegalità, che si perpetua da decenni, resiste a ogni dichiarazione d’intenti e si alimenta dell’indifferenza e della complicità.
È un sistema di responsabilità diffuse, in cui i rom hanno una colpa evidente e diretta: sono spesso gli esecutori materiali dei roghi. Bruciano cavi, elettrodomestici, rifiuti industriali per ricavare rame o liberare spazio, con piena consapevolezza dei danni che quei veleni arrecano alla salute di tutti. È un atto doloso e tossico. Ma sarebbe ipocrita fermarsi a questa evidenza.
Perché quei materiali non nascono nei campi. Ci arrivano ogni giorno, in un flusso continuo e illegale, alimentato da più soggetti:
È una filiera illegale, ma perfettamente organizzata, che parte dal condizionatore dismesso di un condominio e finisce nella nube tossica che avvolge l’intera periferia nord di Napoli. Un circuito in cui molti trovano convenienza e profitto, tranne chi subisce le conseguenze sanitarie e ambientali.
Da oltre vent’anni, questa è la radice marcia della Terra dei Fuochi. Una zona grigia in cui i rifiuti vengono sversati gratuitamente, i “bruciatori” guadagnano sui metalli, le aziende risparmiano, e le istituzioni fanno troppo poco. Gli unici a pagare sono i cittadini onesti. Quelli che respirano ogni giorno un’aria sempre più compromessa. Quelli che si ammalano.
Nel frattempo, la macchina pubblica si muove lenta, spesso distratta, talvolta impotente. Le forze dell’ordine intervengono quando il fumo è già visibile in cielo. Le centraline ARPAC registrano i picchi quando il danno è già stato fatto. E i colpevoli, nella maggior parte dei casi, non vengono identificati. Figuriamoci puniti.
Chi vive a Giugliano, Parete, Villaricca o Qualiano conosce bene la realtà: i roghi non sono episodi isolati, ma tappe fisse di un calendario non scritto. L’estate li intensifica, ma non li esaurisce. I cittadini li documentano, li denunciano, ma troppo spesso restano soli.
Qui non c’entrano il razzismo né le semplificazioni sociologiche. Si tratta di criminalità ambientale organizzata, che coinvolge più livelli: sociale, economico, istituzionale. E che può essere spezzata solo se si interviene contemporaneamente su tutta la filiera. Non solo su chi dà fuoco, ma anche – e soprattutto – su chi alimenta quei fuochi con materiale illecito.
Continuare a tollerare questa situazione significa accettare che Giugliano resti sinonimo di roghi, veleni e malattia. Significa accettare che la responsabilità si fermi all’ultimo anello della catena, lasciando intatti i veri registi di questa economia parallela.
Serve una volontà politica concreta, non dichiarazioni a mezzo stampa. Servono controlli efficaci, sequestri, arresti, denunce. Serve un sistema di videosorveglianza che funzioni, un monitoraggio dei flussi di rifiuti, una mappatura dei conferitori abituali. E soprattutto serve una cittadinanza vigile, unita, non più disposta a tollerare.
Perché il veleno non conosce confini, etnie, classi sociali. Colpisce tutti, indistintamente. E finché non ci sarà la forza di spezzare questo ciclo perverso, la Terra dei Fuochi continuerà a bruciare. E noi con lei